"Fu in una lugubre notte di novembre che vidi la realizzazione delle mie fatiche. Preso da grande angoscia, raccolsi i miei speciali strumenti così da poter infondere una scintilla di vita nella cosa inanimata che giaceva ai miei piedi. Era già l’una di notte; la pioggia picchiettava ossessiva contro i vetri, e la mia candela era quasi consumata, quando, alla debole luce semi-estinta, scorsi l’occhio giallo, fermo, della creatura aprirsi; respirava a fatica e un moto convulso agitava le sue membra. [...]"
Sono curiose le circostanze che portarono alla stesura di quest’opera così amata.
Tutto accadde nella piovosa estate del 1816, che gli Shelley trascorsero sul Lago di Ginevra, a casa del poeta Lord Byron. Byron, avvinto da alcuni racconti tedeschi dell’orrore, sfidò i suoi ospiti nella stesura di storie horror per vincer la noia. Dopo aver pensato invano a un trama, una notte Mary fece un “sogno a occhi aperti” e scrisse di getto il suo racconto, che piacque a tutti e vinse la sfida.
Proprio da qui si svilupperà il romanzo che conosciamo.
Lungi dall’essere una semplice storia di mostri, Mary Shelley indaga le conseguenze nefaste di un’ambizione che diventa ossessione mortale e svela la brutalità di una società che non perdona la difformità e tanto meno la deformità. È il primo, e per certi aspetti unico, racconto di questo genere a porsi anche dalla prospettiva del mostro: vittima prima ancor che carnefice.
Se nel racconto di Mary Shelley a parlare è sempre il capitan Walton (che descrive alla sorella, in un diario di bordo, i fatti straordinari di Victor Frankenstein e del “mostro”), la scelta di una voce femminile per leggere il testo può sembrar bizzarra.
Ma se la stessa Shelley avesse letto queste pagine ai suoi amici in quella lontana, tempestosa notte ginevrina?