A distanza di pochi anni, tra il 1957 e il 1959, Carlo Levi compì un viaggio nel subcontinente indiano e uno in Cina, come inviato per il quotidiano «La Stampa». I suoi reportages, usciti a puntate e qui raccolti in volume, appartengono a un giornalismo che non c’è più, un giornalismo non ancora saturato, e in un certo senso usurato, dall’urgenza della notizia e dall’eccesso del culto dell’immagine: un mondo in cui l’informazione viaggiava lenta e aveva il tempo di sedimentare. I resoconti di viaggio di Levi commuovono come poesie: la narrazione è parte integrante di quell’esperienza in una realtà apparentemente «altra» di cui lo scrittore si appropria per ritrovarvisi come in uno specchio. E insieme, per ritrovare in quella civiltà, lontana ed esotica, le radici profonde della nostra civiltà e della nostra storia. Reportages che sono fotografie, affreschi della società indiana e cinese, che lo scrittore torinese sa penetrare con rispetto e riserbo, e al tempo stesso con apertura e disponibilità a un nuovo che gli desta stupore e curiosità inesauribili. Trapela tutta l’esigenza del viaggiatore di divenire faticosamente e lentamente «una spugna asciutta e vuota», che può riempirsi delle acque in cui è immersa e farne poi dono agli altri che lo aspettano e che, in fondo, hanno viaggiato un po’ con lui. Sul continuo alternarsi di quadri d’insieme coerenti e di squarci dalla possente suggestione lirica, aleggia impalpabile una sorta di presagio di ciò che verrà. Ne sortisce un libro che è un’istantanea preziosa per cogliere nel loro farsi due ormai conclamate potenze mondiali, alle prese con il loro primo impatto con la modernità.