A partire dal 1988, quando pubblica Stadelmann, la scrittura per la scena prende un posto sempre più importante nell'opera di Claudio Magris. Anche perché i suoi testi teatrali - a volte in forme chiuse come il monologo, a volte in forme più aperte e corali - accolgono spesso quella «scrittura notturna» che Ernesto Sabàto contrappone alla «scrittura diurna», razionale e consapevole. La drammaturgia di Magris fa dunque emergere verità più profonde, quelle che magari non si sa neppure di possedere e che anzi, a volte, addirittura «tradiscono» perché contraddicono quello in cui si crede. Non a caso, come annota nella sua prefazione Guido Davico Bonino, queste piéces rientrano in una Drammaturgia del Disagio, variamente esplorata. Stadelmann, servitore e collaboratore di Goethe, prende via via coscienza, sia pur sempre con vigorosa vitalità, del disagio del vivere e dello svanire della vita. Le voci, giocando in apparenza sulla discrepanza tra voce umana e voce registrata, si ribaltano in una fiaba romantica «nera» su una ricerca di verità e autenticità che diviene ossessione e follia. La mostra mette in scena il destino minimo di un uomo, un artista morto in manicomio, e la sua regale, anarchica e colpevole autodistruzione, in una frantumazione dell'io che diviene babelica frantumazione del linguaggio. Il microdramma Essere già stati esplode, nonostante il tono apparentemente pacato, in una tensione estrema e radicale, in un desiderio di aver già vissuto, di vivere postumi rispetto a sé stessi. Lei dunque capirà, riprendendo in forma di monologo al femminile il mito di Orfeo ma dando la parola a Euridice, amplia il disagio fino a una dimensione metafisica che comprende l'amore e l'impossibile ricerca della verità.