Abbiamo diviso in modo netto carnefici e vittime, l'Occidente e il caos; abbiamo tranquillizzato la nostra coscienza con racconti semplicistici. Abbiamo tracciato un confine tra umano e disumano. Così l'Isis era un mostro sconosciuto che andava annientato, e le terre su cui ha allignato solo delle terre guaste da lasciare al loro destino segnato. Eppure, se avviciniamo lo sguardo scopriamo quanto di irresistibilmente umano è restato dove abbiamo pensato non ci fosse bisogno di guardare più nulla. Non c'è un solo ritratto in Porti ciascuno la sua colpache non si incida nella nostra mente: le donne vedove di miliziani pronte a essere madri di altri martiri, i bambini dei carnefici dell'Isis accanto ai bambini delle vittime dell'Isis nello stesso campo profughi, i giovanissimi orfani del Califfato che speravano di immolarsi in un attentato e adesso senza una gamba guardano fisso il vuoto, gli adolescenti terroristi che sembrano dei ragazzi di una qualunque periferia del pianeta.
Francesca Mannocchi, 1981, reporter freelance e regista, scrive per "L'Espresso" e collabora con numerose testate internazionali e televisioni. Il suo lavoro si concentra sul racconto di migrazioni e zone di conflitto. Ha realizzato reportage da Iraq, Libia, Libano, Siria, Tunisia, Egitto, Afghanistan. Nel 2018 è stato presentato al Festival del Cinema di Venezia il documentario Isis, tomorrow. The lost souls of Mosul, diretto con il fotografo Alessio Romenzi, sui figli dei miliziani dell'Isis. Ha vinto il Premio Giustolisi con un'inchiesta sul traffico di migranti e sulle carceri libiche, il Premiolino 2016 e il Premio Ischia 2019. Ha pubblicato Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi 2019).