Introduzione di Riccardo Reim
Le undicimila verghe, scriveva Louis Aragon, non è un libro erotico, è un gioco: «È un libro in cui tutta l’abilità di Apollinaire e la sua conoscenza di una certa volgarità conturbante vengono alla luce a spese della sincerità e della vita. Ma è forse il libro di Apollinaire in cui l’humor si mostra con maggiore purezza».
Nella trama (se di trama si può parlare) galleggiano tutte le immagini e le situazioni tipiche della tradizione del feuilleton, dei romanzi sentimentali di infimo gusto e degli opuscoli erotici d’accatto, immancabilmente ambientati tra grandi alberghi di frontiera, vagoni ferroviari di prima classe e transatlantici di lusso in cui si muovono enigmatiche avventuriere e nobili dall’irresistibile fascino slavo...
Una farsa forsennata (fin dal titolo grottesco-carnevalesco) che irride e prende le distanze sia dall’amore che dall’erotismo. Echi di Sade? Sì, ma in una sontuosa, saporitissima salsa alla Rabelais.
Guillaume Apollinaire
(questo il nome che dal 1902 adoperò Wilhelm Albert Apollinaris de Kostrowitsky) nacque a Roma nel 1880 da un’aristocratica polacca, Angelica de Kostrowitsky, e da padre italiano, forse un ufficiale borbonico. Legato ai più importanti movimenti d’avanguardia della sua epoca, fu il teorico del cubismo e contribuì a orientare verso il simbolismo la poesia surrealista. Dopo aver girovagato a lungo per l’Europa, nel 1913 si trasferì definitivamente a Parigi, dove morì nel 1918 in seguito alla febbre spagnola.