I vinti. Novelle scelte (1880-1884)

· Classici Aklat 2 · Il Grano Edizioni
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Affresco unico e commovente della vita senza sogni e senza illusioni degli ultimi, degli umili, e poi della rabbia, della miseria, della sofferenza, e qualche volta pure della speranza. È la Sicilia verghiana, nei cui teatri come nelle più celebri tragedie greche, convivono bellezza e dramma, menzogne e verità: «Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro il turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme». Esistono gli estremi della condizione esistenziale in queste novelle selezionate di Giovanni Verga, dove il racconto del quotidiano è crudo e violento, e allo stesso modo intenso e penetrante. Quando Bronte si solleva, nelle parole dello scrittore siciliano, si può ritrovare una folla di gente che rivendica diritti non concessi o ricevuti dall'alto, ma ottenuti con la spada. È un imbracciare falci, bastoni, scuri. Unità, o indipendenza, o nazionalità, i cui sentimenti hanno indubbiamente accompagnato i movimenti popolari sin da prima del 1820 si integrano nel preteso cambiamento politico che l'ideale risorgimentale ha fatto proprio come motivo prevalente. I vinti di Verga non saranno, poi, che la rappresentazione impudica della situazione miserevole che le periferie del regno ripresentano con caratteri pressoché similari estesamente. È una realtà dove il contentarsi di «buscarsi il pane colle […] braccia», a volte non coincide col non «menarle addosso ai compagni», o con i «visacci» di carusi a cui «le soperchierie» cascano sulle «spalle», e che sono «diavolacci» per «un magro affare», e che non moriranno nel proprio letto così come i padri trattati da bestie, che «grattano» la rena borbottando a colpi di zappa: «Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella». In quei villaggi, il cielo può pure «formicolare di stelle», e le lanterne fumare alla vista di arcolai, ma gli «occhiacci invetrati» della povera gente rimangono intatti. Sottoterra, come nelle zolfatare sicule, o per i campi lungo le dorsali appenniniche, l'abbrutimento figlio della miseria è nei corpi e forse nei modi di questa gente, qualche volta pure negli animi. Malgrado ciò, qui si ritrova la dimensione umana più straordinaria e tragica per cercare di interpretare il processo di democratizzazione del Paese: quando si spera di morire come un vecchio asino azzoppato; quando nella durezza degli insulti e dei calcioni, «dei colpi di badile» prima di andare «a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro» si legge il senso della violenza che è tangibile proprio perché unico mezzo per non essere sopraffatti dall'accanimento dei predatori. E dopo tutto, essere capaci di dividere pani neri e «mezze cipolle» coi più indifesi, e indossare abiti e scarpe, ancora servibili, di chi non è più. Le «attitudini timide e ruvide» che danno i patimenti e «l'isolamento»; le fatiche che fanno perdere «le sembianze gentili» e la «forma umana»; lo «spago» che annoda i capelli sui cenci; «la grossolana avvenenza dei lineamenti» offuscata dall'«ombrosa» riservatezza; il raggomitolarsi sull'«ultimo gradino della scala» sociale, dopo aver svolto qualunque altro lavoro che «stimansi inferiore al compito dell'uomo», fanno parte, allora, di descrizioni che si rinvengono nelle realtà femminili più difficili del Paese, all'indomani dell'Unità, tanto nel meridione che nelle zone della nuova industrializzazione che muta – in tanta parte – i paesaggi della nuova Italia, ma non più di tanto i suoi modi di sopravvivenza: «L'immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un'aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l'aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l'anima e l'intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia».

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Giovanni Verga è tra i più grandi narratori europei dell'Ottocento. Novelliere e romanziere, è il maggior esponente del verismo italiano. Siciliano dallo stile asciutto e duro, tra le opere più note si segnalano: la raccolta Vita dei campi (1880), I Malavoglia (1881), Mastro Don Gesualdo (1889).

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