La notte del 22 maggio 2010, quando l'Inter di Mourinho sale sul tetto d'Europa e conquista la sua terza Champions League, a sollevare per primo quel trofeo così a lungo inseguito non può che essere il capitano di tante battaglie, Javier Zanetti.
Arrivato da giovane sconosciuto alla corte del presidente Moratti, nel lontano 1995, Zanetti ha legato in modo indissolubile la propria carriera alla maglia nerazzurra, ultima «bandiera» in un calcio dove i grandi campioni sono spesso fuoriclasse senza radici. Tutti, compagni e allenatori, tifosi e avversari, insieme alle qualità tecniche ammirano la tenacia e la costanza che mette in partita: oggi come vent'anni fa, per lui l¿entusiasmo è sempre lo stesso, corsa e cuore, salire palla al piede a centrocampo e puntare l'uomo, macinare chilometri su chilometri sulla fascia.
Del resto il suo soprannome è «El Tractor», il trattore. Un campione in campo e fuori dal campo, Zanetti ha creato la Fondazione Pupi per aiutare bambini e ragazzi disagiati di quei barrios di Buenos Aires dove è cresciuto e dove, per aiutare la famiglia, lavorava come muratore insieme al padre o consegnava il latte alzandosi alle tre del mattino.
Nella notte del trionfo al Santiago Bernabeu di Madrid, qualcuno fatica a riconoscere in quel volto pazzo di gioia, con la coppa appena conquistata a mo¿ di cappello, l'autorevole capitano capace in campo di parlare con l'esempio più che con le urla, il campione tranquillo che tutti considerano erede di un altro grande capitano della storia interista, Giacinto Facchetti. Forse perché non sanno che Javier Zanetti, ciuffo da bravo ragazzo, serio, determinato, «fortunato e felice» come si definisce ripensando alla sua eccezionale avventura sportiva, nasconde un po' di quel Dna di follia della sua unica grande squadra, la Pazza Inter con cui ha sofferto, perduto e vinto. E il cui orgoglio per i tanti trofei conquistati - fra tutti, lo storico Triplete - nessuno potrà mai cancellare.
Ripercorrendo con Gianni Riotta la propria carriera, Zanetti mette da parte il personaggio pubblico e si racconta «a tutto campo», rivivendo la Partita Infinita di un ragazzino che a Buenos Aires giocava su campetti fangosi e che a quarant'anni ha vinto tutto. Ma non ha mai dimenticato che, se è arrivato ad alzare in alto quella coppa, lo deve ai valori in cui crede, la fatica, il lavoro, la famiglia. Perché per correre dietro a ragazzi che hanno la metà dei tuoi anni non basta avere fiato, ci vuole il carattere di un vero uomo.