L’Angelo necessario

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Per secoli, il pensiero ha tentato di convincersi che gli Angeli fossero entità superflue, superstiziose anticaglie. Ma la dimensione dell’Angelo continua a riaprirsi, ci accompagna, si trasforma, ma non ci abbandona. Questo libro, pubblicato nel 1986, e che ora riappare interamente riveduto e ampliato, è dedicato all’Angelo che finisce per rivelarsi «necessario», come dice il titolo, riprendendo una mirabile lirica di Wallace Stevens. Ma necessario a che cosa? L’Angelo educa, conduce a una conoscenza diversa da quella che si sviluppa in rapporto al visibile. «L’Angelo testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l’invisibile in quanto invisibile, non lo ‘tradisce’ per i sensi». In questo, si oppone radicalmente al «daimon», che è al servizio di una fatalità cosmica e impone ogni volta il vincolo della cosa e alla cosa. L’Angelo è l’ermeneuta del movimento opposto: quello che guida fuori dalla lettera, quello che va, non già dall’idea alla cosa, dal segno al rappresentato, ma dalla cosa all’invisibile. Cacciari elabora questa sua lettura filosofico-teologica dell’Angelo attraversando i testi e le immagini, a partire dall’antichità giudaico-cristiana o pagana o iranica sino a Klee o a Rilke o alla riflessione di Henry Corbin. E appare evidente come questa sua ricerca si connetta anche ai suoi lavori precedenti, e in particolare a «Icone della Legge». Qui, sempre con riferimento a Benjamin e a Rosenzweig, torna a porsi il problema della rappresentazione e l’Angelo aiuta a configurarlo come un vero dramma gnoseologico che si svolge sulla soglia di quello che Corbin ha definito il «mundus imaginalis». E intanto l’attenzione si fissa sulla fisiognomica degli «ultimi, grandi incontri» con l’Angelo. Ora gli Angeli diventano simili a «dèi dell’istante», «lampeggiano e scompaiono». Ormai sottratti a ogni stabile gerarchia, sedotti e quasi irretiti dall’umano, questi ultimi Angeli serbano in sé un riso, una disperazione e una paradossale libertà che ci sono più che mai essenziali. Grazie a loro, come scrisse Rilke, «raccogliamo disperatamente il miele del visibile, per custodirlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile».

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