Lo spazio dell'immaginazione

· Giulio Einaudi Editore
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L'inglese George Orwell, intellettuale antifascista per antonomasia, uno degli scrittori piú impegnati del presente, e l'americano Henry Miller, esule volontario, accanito bohémien, pessimista convinto, edonista allergico a ogni genere di militanza. Nonostante il reciproco rispetto, due visioni del mondo agli antipodi, le loro. Eppure, nel suo celebre saggio del 1940, Orwell riconosce agli artisti il diritto di trovare rifugio «nel ventre della balena», quello spazio buio e imbottito che, separando lo scrittore dal mondo esterno, gli consente di mantenere un atteggiamento di distacco e indifferenza, benefico per la creazione.
A partire da quello scritto, Ian McEwan affronta il tema della responsabilità dello scrittore, eternamente in tensione tra obbligo costante e libertà divina, e ci conduce a un bivio ineludibile nei nostri tempi inquieti, quello fra impegno politico e integrità estetica.

Si potrebbe ragionevolmente supporre che l'autore di 1984, uno degli scrittori piú politicamente e attivamente impegnati del nostro tempo, l'accanito fumatore che immaginiamo curvo sulla macchina da scrivere come se ci fosse incatenato, avrebbe condannato in maniera categorica l'irresponsabile apatia di colleghi come Henry Miller, la cui visione politica risultava a suo modo di vedere sprovveduta, autoreferenziale, come minimo disinvolta. Eppure, nel suo celeberrimo saggio del 1940, lo scrittore inglese antifascista per antonomasia compie un gesto di autoriale generosità: riconosce agli artisti il diritto di trovare rifugio «nel ventre della balena».
A partire dall'incontro tra Orwell e Miller, e tramite incursioni nel pensiero di altri leggendari scrittori come Albert Camus e l'Italo Calvino di La giornata d'uno scrutatore, Ian McEwan ci conduce al nocciolo della questione: ammesso che alla sua base ci sia un'esperienza personale autentica, un romanzo politico potente ed efficace è possibile. E tuttavia, soprattutto all'interno del nostro mondo iperconnesso, lo scrittore non deve perdere di vista il lusso della solitudine. Negli ultimi decenni l'artista è costantemente sollecitato a staccarsi dal comodo ventre della balena per nuotare in una realtà di catastrofi, eventi politici, morti di personaggi venerati e fragori e turbolenze dei social media. Se questo rischia di condurlo troppo distante da quella che Henry James chiamava la «vita percepita», ovvero il dettaglio, la banalità del quotidiano, è bene che lo scrittore riesca a raggiungere di nuovo, almeno per un poco, un luogo silenzioso e riparato da cui poter osservare il mondo e immaginare.

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