Noi, i sopravvissuti

· Giulio Einaudi Editore
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Pochi chilometri separano il minuscolo villaggio dove vive Ah Hock dalle torri scintillanti di Kuala Lumpur. Pochi chilometri e interi universi. Eppure Ah Hock ha creduto al grande sogno malaysiano: nasci senza prospettive, ma con la pazienza e il duro lavoro puoi conquistarti il tuo pezzetto di benessere e forse anche di felicità. Poi un giorno ti trovi di fronte un uomo che ti assomiglia, ma è un diseredato senza diritti che minaccia il tuo sogno. E allora devi scoprire fino a che punto la violenza del mondo di fuori è ormai parte di te. Tash Aw leva un inno affilato a chi nonostante tutto non rinuncia a sopravvivere.

Questa è la confessione di un improbabile assassino. Si chiama Ah Hock e anni addietro, in un angolo buio sull'argine di un fiume, ha ucciso un uomo che non conosceva né odiava. Del suo efferato crimine sono note le circostanze materiali - l'identità della vittima, l'arma del delitto, l'entità e le conseguenze della pena - ma per spiegare i meccanismi spietati e inesorabili che hanno finito per armare il suo braccio, trasformando il bravo figlio di una madre sola, amico affidabile e poi marito fedele, in un omicida, non bastano le carte processuali. La storia di Ah Hock è una storia di piccoli passi e grandi speranze in un paese, la Malaysia, dove la lotta per sopravvivere ed emergere deve fare i conti con un tessuto di tremende contraddizioni economiche, razziali e sociali, e dove è facile restare incastrati negli ingranaggi di una modernizzazione a macchia di leopardo. Dal minuscolo villaggio di pescatori sulla costa occidentale in cui è nato, un puntino accanto a Kuala Selangor che nessun navigatore satellitare saprebbe trovare, il ragazzo si trasferisce con la madre su un pezzetto di terra tutto loro, su cui sudare e sognare come fosse l'Eden, perché «il mare era sempre agitato, sempre lí a contorcersi, deformarsi, rotolare via o sopraffarci. Non eravamo mai certi di niente col mare, ma il suolo, il nostro suolo, era solido». Però anche la terra tradisce, e allora è la volta della grande città, le luci di Kuala Lumpur, i mille lavori, la modesta ascesa, fino ad accorgersi che nella catena del potere esercitato e subíto non è piú lui l'ultimo anello. Quel posto ora è occupato da bangladesi, indonesiani, birmani, schiere di immigrati clandestini senza diritti né futuro, masse indistinte di povera carne spendibile, per alcuni, come il suo vecchio amico Keong, nient'altro che «carichi» da far pervenire vivi all'acquirente. Quando un rovescio di fortuna minaccia di fargli perdere tutto, Ah Hock deve decidere da che parte stare. A raccogliere la sua confessione un registratore, e dietro a quello una faccia, una voce, una storia che non potrebbe essere piú diversa da quella di Ah Hock, e tuttavia speculare alla sua. Sono la faccia, la voce e la storia di un'altra Malaysia, quella che vuole capire, ma per farlo guarda giú dai resort in cima alla collina. Una Malaysia colta, ricca, benintenzionata, estrinseca. La Malaysia che prende la parola, anche se non è la sua.

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