Pietra di pazienza

· Giulio Einaudi Editore
4.0
Maoni 4
Kitabu pepe
120
Kurasa
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Una donna veglia un uomo disteso in un letto. L'uomo è privo di conoscenza, ha una pallottola in testa, gli ha sparato qualcuno per un futile motivo. In un paese che assomiglia all'Afghanistan, in un tempo che potrebbe anche essere oggi.
La donna parla senza interruzione, come non ha mai fatto prima. Racconta al marito, finalmente presente e muto, molte storie che fanno la loro storia e quella del loro paese. Prima sussurra, poi grida, si adira, ha paura. Piange. Esce per poi ritornare. E ancora sussurra, piano, dolcemente.
Si prende cura dell'uomo e insieme lo rimprovera. Lo rimprovera di aver voluto essere un eroe, di aver preferito le armi e la guerra a sua moglie e alle figlie. Di non avere mai parole per lei. Di possederla in fretta e con violenza, senza dolcezza, né piacere. A poco a poco, respiro dopo respiro, grano dopo grano del rosario che tiene in mano, escono dalla bocca della donna parole proibite, parole ribelli.
La stanza dove si svolge il monologo è uno spazio chiuso in cui si consuma una vita e si prepara una tragedia. Lì vicino, uno stretto corridoio apre su altre camere dove si sentono le voci delle bambine. Una finestra coperta da una tenda con uccelli migratori affaccia sul mondo esterno. Tutto intorno infuria la guerra. Bombardamenti, violenze e distruzioni. La gente muore e impazzisce dal dolore. Chi può, fugge e non guarda in faccia nessuno.
Poi, anche il mondo esterno penetra nella stanza, sotto le spoglie minacciose di tre uomini armati.
Insieme a loro entrano la violenza e l'arroganza, ma anche una dolcezza timida e balbuziente come le parole del giovane che chiede amore a pagamento e l'affetto di una madre.
La tragedia raggiunge inevitabilmente la sua acme. In un crescendo serrato la donna inizia a svelare al marito piccole furbizie e grandi colpe. Menzogne necessarie per non essere ripudiata con ignominia. Confessioni, inevitabili e terribili, da cui non si può tornare indietro.
Forse, un limite c'è anche per la sang-e sabur, la pietra di pazienza. Quella pietra che nella mitologia persiana si tiene accanto per confidarle tutto quello che non si può rivelare a nessun altro. Riversando su di lei i propri malesseri, sofferenze, dolori, miserie. La pietra ascolta, assorbe come una spugna, tutte le parole, tutti i segreti finché un bel giorno non esplode. E quel giorno saremo liberati.

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