Storie di Cinema

· Gelmini Edizioni
5.0
Maoni moja
Kitabu pepe
349
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Chi nella propria vita abbia visto più di una decina di film sa che la storia del cinema non si può che declinare al plurale: quella che per comodità di targhette accademiche chiamiamo “Storia” è in realtà un tessuto composito di fili intrecciati, un canovaccio di storie che si incontrano, si scontrano, si intrecciano e si strecciano, si spezzano e si riannodano all’infinito.

In questo intreccio si muove il libro di Pino Farinotti, che è una raccolta di articoli e interventi apparsi su web e carta stampata e che programmaticamente si intitola “storie” del cinema. Storie nei due sensi: talvolta vere e proprie piccole ricostruzioni storiche, talvolta affabulazioni e racconti, che entrano nel tessuto vivo della “storia”, seguono fili e intrecci e ci restiuiscono frammenti di una raffigurazione, idee per una ricostruzione, aree su cui tornare a porre l’attenzione.

Se si può (o si deve) cercare un’unità tra questi apparenti disiecta membra, la si trova proprio nell’implacabile volontà di Farinotti di far luce, di delineare, di raccontare non solo per giustapposizione, ma individuando temi, interessi, aspirazioni.

Ne esce un concentrato di farinotti-pensiero, che è cosa che si ama o si odia, ma di fronte alla quale è difficile rimanere indifferenti, perché Pino Farinotti non rifugge da prese di posizione nette e da parole pesanti: “morale” innazitutto, e poi bellezza, modelli (quelli estetici e morali, non quelli che sfilano in passerella), letteratura, eleganza, eroi. Sono parole di cui avvertiamo la disabitudine, la desuetudine e la scorrettezza rispetto ai modelli culturali che sono imposti e ci imponiamo, ma di cui non possimo fare a meno di provare la nostalgia (altra parola chiave di questo libro).

La silloge dei testi che vengono presentati è divisa programmaticamente in grandi capitoli che raccolgono i temi forti che da sempre hanno caratterizzato lo sguardo dei critici, degli storici e dei grandi narratori di cinema.

Si incomincia con gli Eroi, le grandi figure di registi e attori senza i quali il cinema come lo conosciamo neppure esisterebbe (e la cui mancanza, al momento della morte, ci rende sgomenti e ci fa pensare che il mondo abbia perso qualcosa di essenziale), per approdare poi a Cinema e politica (relazione fondativa o peccato originale del cinema?), e a Cinema e società (in un gioco di influenze che nel pensiero di Farinotti è reciproco: il cinema ha “fatto” la società almeno tanto quanto la società si è espressa nel cinema).

Il capitolo dedicato al Cinema Italiano è quello in cui la parola chiave “nostalgia” si declina più profondamente, nella constatazione di un declino che non è laudatio temporis acti fine a se stessa, ma indicazione di una direzione, anzi di direzioni, per un ritorno, una ripresa.

L’ultimo capitolo, Elzeviri, rappresenta un’uscita dal cinema verso gli altri territori della cultura e dell’arte e si chiude con una conversazione tutta da leggere tra Pino Farinotti e Massimiliano Finazzer Flory dedicata alla notte tra El Greco e Buñuel.

In un capitolo a parte, posto quasi a epigrafe del volume, si parla, come è giusto, di Avatar. Troppo presto per inserire questo singolo film in una prospettiva storica, ci stiamo tutti chiedendo se siamo di fronte a un nuovo capitolo epocale o soltanto a un fortunato accidente della cronaca.

Un ultimo avviso: il farinotti-pensiero si esprime in farinottilingua, che è un italiano diretto, muscolare, che unisce la precisione dello storico alla fantasia del romanziere e si tiene assai lontano dalle fumisterie di molta lingua criticocinematografica. Con un’altra implacabile volontà: quella di capire e di farsi capire, di suscitare accordo o opposizione, e di stare sempre, come dice un noto tormentone farinottiano, “dalla parte del pubblico”.

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