Nessuno si salva nella vicenda narrata in questa breve e fulminante opera: chi fosse a caccia di exempla edificanti resterebbe deluso, perché ogni dettaglio, anche il più insignificante, è in qualche modo sporcato, contaminato, lacerato dal vizio. I pochi personaggi, e più di tutti il protagonista Mario Samigli, inetto col pedigree, sono scandagliati da uno Svevo maturo (il testo è del 1926), sempre più convinto che le nevrosi siano l’unico antidoto contro l’alienante conformismo borghese. Per rappresentare un mondo in cui disturbi mentali e pecche caratteriali danzano tra loro una quadriglia sincopata, viene scelto un plot semplice nella sua efficacia: il borioso mitomane viene beffato dall’invidioso patologico e tutti perderanno qualcosa (o quasi). Sullo sfondo una Trieste di primo Novecento inquietante e funestata dalla bora che prende a schiaffi ogni cosa e sembra sottrarre a tutti qualsiasi conforto e sicurezza.
Introduzione di Milena Contini.
Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz (Trieste, 1861 – Motta di Livenza, 1928), nato in una benestante e numerosa famiglia triestina di origini ebraiche, non fu mai uno scrittore a tempo pieno, anzi visse sempre con un certo conflitto interiore la propria vocazione letteraria, non riuscendo a scrollarsi di dosso il pregiudizio che l’uomo d’affari ha nei confronti dell’attività artistica. Nonostante questo intimo dissidio, scrisse opere fondamentali nel panorama della letteratura italiana (e non solo) della belle époque e, soprattutto, del primo dopoguerra, rappresentando magistralmente la figura dell’“inetto” nello scenario della società di massa. Dei suoi tre romanzi – Una vita (1892), Senilità (1898) e La coscienza di Zeno (1923) – l’ultimo è quello più noto, anche grazie alle raffinate e non scontate strizzate d’occhio verso le teorie freudiane dilaganti in quegli anni. Oltre a queste opere, scrisse numerosi articoli letterari, racconti e opere teatrali, che necessiterebbero di una maggiore attenzione di critica e pubblico.