Liber Mundi

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Emilio De Marchi (1851 - 1901) per me è in primo luogo un ricordo: un nome su un cartello. Era la strada dove abitavo nella mia prima infanzia. Un giorno mi venne in mente di chiedere chi fosse quel signore, mi incuriosiva sapere la ragione di quella dedica. “E’ uno scrittore, milanese”. Una risposta che mi fece doppiamente piacere, non solo per la simpatia che coltivavo già allora, alunno elementare, nei confronti degli inventori di storie, ma anche per il senso d’appartenenza: De Marchi era un personaggio locale, che magari aveva camminato per le stesse strade di Milano dove ogni tanto si andava a fare lepasseggiate con i nonni. E questa vicinanza me lo rendeva an- cora più importante, perché in maniera implicita suggeriva che non conta da dove parti, conta quello che hai dentro e come lo esprimi. Per questi motivi quando da ragazzino iniziai i primi studi di let- teratura italiana durante le scuole dell’obbligo restai piuttosto deluso: del grande De Marchi su quelle pagine c’era ben poca traccia. Nei sussidiari - testi di letteratura compressa e ritagliata, comunque ammirevoli nella loro capacità di sintesi - l’autore non era inserito tra i pesi massimi. Anzi neppure tra i pesi medi: era una citazione fuggevoletra il verismo e la scapigliatura. Al più si ricordavano il suo romanzo “Demetrio Pianelli” oppure “Il cappello del prete” (anche per via degli sceneggiati televisivi del 1963 e del 1970 per la regia di Sandro Bolchi) per poi sfilare verso altri orizzonti.

Chi però ha la fortuna di arrivare direttamente all’opera di De Marchi non resta deluso: davanti a sé non trova certo un modesto anel- lo di congiunzione tra generi e correnti, e neanche uno scrittore solipsista che rimesta in pentola i suoi bigi ragionamenti di cose andate, bensì un autore completo che sa guardare al mondo che lo circonda con l’attenzione di un cronista indagatore di caratteri e interiorità umane.