Abdia

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Fra i grandi scrittori dell’Ottocento, Adalbert Stifter è forse il meno conosciuto fra noi. Sempre più chiaramente appare, con gli anni, che l’opera di quest’uomo che visse a lungo appartato nella provincia austriaca, che vide il mare per la prima volta a cinquantadue anni, a Trieste, che pretendeva di scrivere «trastulli per giovani cuori», è una delle rare opere di cui si può dire, nelle parole di Hofmannsthal, che «nascono da necessità assolutamente sovrapersonali». Non c’è scrittore, ad esempio, che sia riuscito ad assorbire, come lui, storia e metafisica in pure descrizioni di paesaggio. Ciò si applica in modo quasi paradigmatico ad «Abdia» (1842, versione rivista nel 1847), uno dei suoi racconti più perfetti. Qui una fosca, fatale vicenda si tende fra gli estremi del deserto africano – con il suo «incanto fatto di solitudine e silenzio» – e l’altra solitudine, umida e verdeggiante, di una conca alpina, scoperta dall’ebreo Abdia come terra del più rapinoso esotismo, idillica cerchia dove egli racconterà, passeggiando, alla figlia le fiabe del deserto. Qui, come sempre in Stifter, gli eventi osano presentarsi come «una serena catena di fiori»: ma poiché, di quella catena, soltanto «pochi petali sono stati svelati finora», e le sue lacune sono vaste, un senso di acutissimo allarme accompagna quella visione. L’immenso amore di Abdia per la figlia – una delle raffigurazioni più intense dell’amore che conosca la letteratura – è vegliato da due potenze: il fulmine e l’arcobaleno. Con la stessa indifferenza, con la stessa imprevedibilità, esse portano e sigillano, volta a volta, la grazia e la sciagura.

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